LA PSICANALISI SECONDO
SCIACCHITANO

"TU PUOI SAPERE, ANCHE SINE CAUSA"

creata il 2 giugno 2009, Festa della democrazia italiana, aggiornata il 21 giugno 2009

 

 

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Provieni da qualche pagina dove si fa riferimento diretto allo Stagirita o si polemizza contro il principio di ragion sufficiente e le sue applicazioni ippocratiche e/o giuridiche, che tanto spesso e volentieri vanno insieme, per esempio in “medicina legale”.

Sarebbe folle o addirittura stupido pensare di condensare la filosofia di Aristotele in una pagina web. Il mio progetto, però, non è né folle né stupido. Creare una pagina dove si psicanalizzi la “filosofia aristotelica della cosa” non sembra impossibile, dato che ormai tale filosofia ha pervaso il soggetto collettivo, in cui viviamo, ed è facilmente accessibile a chiunque abbia un minimo di capacità autoriflessiva. Non c’è bisogno, quindi, di erudizione. Basta solo un po’ del tanto lodato “senso comune”, che non manca a nessuno, secondo Cartesio. Il nostro buon senso di oggi è il millenario distillato dell’antica filosofia aristotelica della cosa, nonché la riserva inesauribile del moderno cognitivismo. (1)

Scire per causas. Così dicevano gli Scolastici, commentando lo Stagirita e sintetizzandone l’epistemologia (v. Secondo libro della fisica). Conoscere le cause e conoscere attraverso le cause significa semplicemente conoscere – ecco il programma cognitivista. La Scolastica porge forse la verità del cognitivismo? Addirittura del buon senso? Al 50% sì. Un altro ma non complementare 50% è che  buon senso e cognitivismo costituiscono la verità della Scolastica, in quanto dottrina conforme alla volontà del padrone.

In realtà, che tipo di sapere è quello che pretende di conoscere le cause delle cose? È un sapere oggettivo, si affretta a dire il buon senso, che con "oggettivo" intende "scientifico". Conosci oggettivamente e scientificamente l’evento delittuoso, se conosci l’autore del delitto. Conosci oggettivamente e scientificamente la “natura” e l’“essenza” della malattia, se ne conosci l’agente patogeno e la patogenesi. Tanto è vero che puoi praticare la terapia corretta, solo se conosci "positivamente" la causa di cui la malattia è l'effetto. Puoi, per esempio, somministrare l'antibiotico mirato contro l'infezione, se prima hai eseguito un antibiogramma. Questa non è più metafisica: è indiscutibile buon senso. Come rinunciarvi o addirittura opporvisi? Sarebbe come rinunciare o opporsi alla nozione comune di esperienza.

Si può, tuttavia, prenderla larga, cominciando dalla seguente considerazione. Già il ricorrere di termini metafisici come “essenza” o “natura” dovrebbe insospettire circa la “natura” o l’“essenza” di questo tipo di conoscenza in regola con il buon senso. L’essenza e la natura sono poste così come sono per non essere messe in discussione. Ma allora sorge spontanea la domanda: cui prodest? A chi interessa non mettere in discussione la natura e l’essenza delle cose? Ovviamente, al pensiero dominante. A lui e solo a lui interessa che non vengano messe in discussione l’essenza e la natura delle cose e che si conservino i cosiddetti valori. Come potrebbe, infatti, il potere costituito dominarle se, grazie alla loro variabilità, l’essenza e la natura delle cose sfuggissero al suo controllo? Fare esperienza, allora, significa allora adeguarsi ai canoni del potere dominante, in primis ai canoni eziologici, senza eccezioni che si discostino dal valore stabilito.

Contro il buon senso sostengo, allora, che il sapere eziologico è un sapere soggettivo – nel senso precisato di soggetto dominante. E preciso che da Aristotele in poi il sapere eziologico è il sapere privilegiato del soggetto collettivo in regola con i canoni padronali. Non c’è bisogno di essere kantiani per sostenerlo. Il soggetto conosce dell’oggetto quel che lui stesso ci mette dentro, sosteneva Kant con la sua trovata della rivoluzione copernicana. Il soggetto conosce eziologicamente l’oggetto, perché dentro ci mette il principio di ragion sufficiente, che è un principio soggettivo. Ok, questo è giusto, ma non ci basta. Noi abbiamo la pretesa di dire sulla causa e sul sapere eziologico qualcosa di più stringente della tautologia kantiana. Con l’aiuto della psicanalisi e di un po’ di fisica quantistica vogliamo mettere definitivamente al suo posto il cognitivismo eziologico. Precisamente con l’aiuto della relazione oggettuale, in psicanalisi, e della relazione di entanglement, in meccanica quantistica, vogliamo relegare l’eziologia, madre di tutti i cognitivismi, al ruolo di “scienza fatta in casa”, la casa del padrone. Uso termini pellegrini? Niente paura, mi spiego subito. Magari con la scusa della fisica quantistica parlerò meno di Aristotele e un po’ più di scienza. Non è meglio? Il mio contributo alla causa aristotelica si limita alla traduzione commentata dei primi sei capitoli del primo libro della Metafisica, che è il pozzo a cui tuttora attinge il nostro buon senso giuridico-medicale.

*

Ecco come un moderno Salviati, uscito dalle pagine dei Discorsi e dimostrazioni intorno a due nuove scienze attenenti la meccanica e i moti locali, parlerebbe del principio eziologico della conoscenza – l’ormai malfamato scire per causas – dopo avere attentamente studiato l’esperimento mentale, ideato da Einstein, Podolski e Rosen a difesa del determinismo e della completezza delle teorie scientifiche. Il breve paper fu pubblicato nel 1935 e intitolato problematicamente: La descrizione quantica della realtà può essere considerata completa? Salviati, alias Galilei, sapeva maneggiare gli esperimenti mentali, tanto bene  che Einstein ne imparò da lui la sottile arte. (2) Il capolavoro di Einstein fu certamente l'esperimento EPR, che sconvolse Bohr. Sembrava tutto perduto per la meccanica quantistica. Ma Einstein fece i conti senza l'oste. (L'oste si sarebbe chiamato John Bell). Fu così che, trent'anni dopo, quel famoso esperimento mentale fu reinterpretato in termini non locali da Bell. Fu un duro colpo per il principio eziologico e il suo predominio sull'atteggiamento naturale intuitivo. Altro che la decostruzione di Hume! (3) Si trattava di una vera riforma dell'intelletto, nel senso in cui l'auspicava Spinoza. Ma torniamo più vicini a noi.

“Il nostro intuito alimenta da sempre un principio fondamentale: per muovere un sasso (o qualunque altro oggetto) dobbiamo toccarlo. O toccare un bastone che tocca il sasso. O dare un ordine che attraversa l’aria sotto forma di vibrazioni che raggiungono l’orecchio di una persona che ha un ramo con cui può toccare il sasso. E così via. Più in generale, intuiamo che le cose possono esercitare un effetto solo su altre cose che siano accanto a loro. Se A ha un effetto su B ma senza essere vicino a B, allora l’effetto deve essere indiretto, cioè deve essere qualcosa che viene trasmesso grazie a una catena di eventi in cui ciascun evento porta direttamente al successivo, in modo da coprire la distanza tra A e B. Ogni volta che ci sembra di aver trovato un’eccezione all’intuizione, per esempio interruttori che accendono i lampioni della città (ma poi ci rendiamo conto che il processo avviene grazie a cavi elettrici) o le trasmissioni radiofoniche (ma poi ci rendiamo conto che si propagano grazie alle onde radio), ci accorgiamo che pensandoci meglio non si tratta affatto di un’eccezione. Ovvero, non troviamo un’eccezione nell’esperienza quotidiana del mondo.

Indichiamo questa intuizione come «principio di località».
La meccanica quantistica ha ribaltato molte intuizioni, ma nessuna tanto radicata quanto la località. E questo ribaltamento porta con sé una minaccia, ancora irrisolta, alla relatività speciale di
Einstein, un fondamento della fisica moderna” (Sfida quantistica alla relatività speciale, di David Z. Albert e Rivka Galchen, in “Le Scienze”, 489, maggio 2009, pp. 40-47.)

Ecco, allora, il guadagno che l’analista trae da questo esperimento mentale. Il principio di ragion sufficiente presuppone a monte una relazione oggettuale precisa. L’eziologia – ossia il discorso del padrone, come direbbe Lacan – esclude le relazioni oggettuali che non avvengono per contatto. L’eziologia ammette solo le relazioni oggettuali che avvengono per contatto. L’eziologia esclude le azioni a distanza e a effetto istantaneo. Si sa quanto Cartesio aborrisse le azioni a distanza e istantaneee in quanto potenzialmente magiche. Tutta la fisica cartesiana è una meccanica di particelle che agiscono su altre particelle, trasmettendo loro localmente una certa quantità di moto, per esempio attraverso i vortici. Meccanicismo vuol dire per Cartesio localismo. E dal punto di vista psicanalitico cosa vuol dire? Vuol dire che, accettando il principio eziologico, si escludono le relazioni oggettuali della voce e dello sguardo, che avvengono senza contatto. Vuol dire che, convocando le cause, si ammettono solo le relazioni oggettuali del tipo “seno” ed “escrementi”, che avvengono per contatto, rispettivamente per acquisizione orale e per perdita anale dello stesso.

Già questa assurdità dovrebbe essere per l’analista una ragione sufficiente per sospendere il principio di ragion sufficiente. Poiché metà delle relazioni oggettuali (voce e sguardo) non avviene per contatto, nel 50% dei casi di interesse psicanalitico il rapporto di causa ed effetto non funziona, poiché con la voce e con lo sguardo non funziona il contatto locale. Il dottor Lacan, che parla di oggetto-causa del desiderio, parla a vanvera nel 50% dei casi. Il suo saggio su “La scienza e la verità” (J. Lacan, Ecrits, Seuil, Paris 1966, p. 855), dove enfatizza la tetrapartizione aristotelica delle cause (4), dimostra che la scienza lacaniana, essendo eziologica, è prescientifica, precisamente aristotelica. Corollario: la scienza lacaniana è inutile per la psicanalisi, perché non è scienza. Non c’è scire per causas in psicanalisi, benché il fondatore Freud parli spesso di eziologia traumatica delle nevrosi. (5)

Ma nella scienza moderna esistono fenomeni senza causa? La risposta è sì. Sono la maggior parte e i più interessanti: il moto inerziale, il decadimento radioattivo, le mutazioni genetiche, nascita e morte delle specie biologiche. Ed esistono anche fenomeni senza contatto? La risposta è ancora sì. Sono stati prima pensati, mediante esperimenti mentali, e poi verificati empiricamente. Sono i fenomeni di entanglement della meccanica quantistica. Di cosa si tratta? Cito da Wikipedia:

“L’entanglement quantistico o correlazione quantistica è un fenomeno quantistico, privo di analogo classico, in cui ogni stato quantico di un insieme di due o più sistemi fisici dipende dagli stati di ciascuno dei sistemi che compongono l’insieme, anche se questi sistemi sono separati spazialmente. Il termine viene a volte reso in italiano con non-separabilità o non-località, in quanto uno stato entangled implica la presenza di correlazioni tra le quantità fisiche osservabili dei sistemi coinvolti. Per esempio, è possibile realizzare un sistema costituito da due particelle il cui stato quantico sia tale che – qualunque sia il valore di una certa proprietà osservabile assunto da una delle due particelle – il corrispondente valore assunto dall’altra particella sarà opposto al primo, nonostante i postulati della meccanica quantistica, secondo cui predire il risultato di queste misure sia impossibile. Di conseguenza in presenza di entanglement la misura effettuata su un sistema sembra influenzare istantaneamente lo stato di un altro sistema: in realtà, è facile mostrare che la misurazione non c’entra niente; quanto detto ha significato solamente in relazione al risultato della misurazione, non all’atto del misurare”.

Può essere utile confrontare questa definizione moderna con quella originale di Schrödinger, il propositore del termine inglese entanglement (in tedesco Verschränkung):

"Quando due sistemi, dei quali conosciamo gli stati sulla base della loro rispettiva rappresentazione, subiscono un'interazione fisica temporanea dovuta a forze note che agiscono tra di loro, e quando, dopo un certo periodo di mutua interazione, i sistemi si separano nuovamente, non possiamo più descriverli come prima dell'interazione, cioè dotando ognuno di loro di una propria rappresentazione. Non chiamerei questo un tratto ma il tratto distintivo della meccanica quantistica" (E. Schrödinger, Proceedings of the Cambridge Philosophical Society, 31, 1935, p. 555).

Ma forse la formulazione più chiara dell'esperimento mentale dell'entanglement è quella data due anni prima da Einstein stesso a Rosenfeld alla conferenza Solvay del 1933:

"Supponiamo che due particelle siano poste in moto l'una verso l'altra con la stessa quantità di moto, molto grande, e supponiamo che interagiscano per un periodo di tempo molto breve, quando passano per posizioni note. Consideriamo ora un osservatore che si occupi di una delle due particelle in una zona molto distante dal punto in cui hanno interagito e che ne misuri la quantità di moto. Allora, in conseguenza delle condizioni dell'eseprimento, questo osservatore sarà ovviamente in grado di dedurre la quantità di moto anche dell'altra particella. Se, viceversa, egli scegliesse di misurare la posizione della prima particella, sarebbe comunque in grado di dire dove si trova esattamente l'altra. Questa è una conseguenza perfettamente corretta e diretta dei principi della meccanica quantistica, ma non è paradossale? Come può lo stato finale della seconda particella venire influenzato da una misurazione effettuata sulla prima, dopo che ogni interazione fisica tra le due è cessata?" (da Amir D. Aczel, Entanglement, Cortina, Milano 2004, p. 104-105).

Non entro in ulteriori – affascinanti – dettagli del fenomeno dell'entanglement, che successivamente passò da esperimento mentale a esperimento reale. Sapendo bene quanto eventuali lettori di formazione filosofica siano prevenuti nei confronti di tutto ciò che è quantitativo, ho citato l’entanglement solo perché rappresenta la versione qualitativa del principio quantitativo di indeterminazione, per esempio l’indeterminazione delle variabili velocità e posizione di una particella (Heisenberg, 1927) (6), esteso a sistemi più complessi di una sola particella. In questa sede mi interessa principalmente segnalare una conseguenza epistemica dell’entanglement. Se guadagni la possibilità di agire su una parte di un sistema fisico, senza entrare in contatto con esso, devi aspettarti di perdere qualcosa. Infatti, l’indebolimento del principio eziologico, che l’entanglement realizza attraverso la non località, comporta l’incompletezza della teoria. Quando nell’ontologia decade la relazione di causa ed effetto, l’“effetto” che si registra in epistemologia è la perdita di completezza di ogni forma di teoria. (7) Einstein si ribellava a questa possibilità. Lui stesso nel 1935 inventò l’esperimento mentale dell’entanglement, proprio per dimostrare che la meccanica quantistica di Bohr era incompleta, quindi non realistica. Ma si sbagliava. Tuttavia, il suo fu un errore felice, perché finalmente conferiva statuto di non località (quindi di effettiva incompletezza) alla nuova meccanica. Le teorie scientifiche moderne, a cominciare dall’aritmetica sono essenzialmente incomplete (Gödel, 1931). Chi frequenta questo sito lo sa bene oramai. Per lui non dovrebbe essere un risultato sorprendente riconoscere che anche quelle psicanalitiche, esattamente come quelle aritmetiche e meccaniche, siano necessariamente teorie incomplete, se vogliono dirsi scientifiche. Del resto - terra terra - cos'è l'inconscio freudiano, se non una sapere che non si sa di sapere, cioè incompleto?
Complete sono solo le teorie aristoteliche, funzionali al potere. Ma ormai, in epoca scientifica, non mette più conto di parlare di Aristotele. Lasciamo Aristotele ai servi del potere, ai Simplici di cui Galilei ci ha schizzato l'immortale caricatura.
Su Aristotele non c’è altro da dire. E' da dimenticare.

*

Non è facile dimenticare Aristotele, però. Per dimenticarlo veramente, bisogna conoscerlo molto bene. Cosa non facile. La sua metafisica, infatti, è entrata nel profondo delle nostre menti e forma, se non proprio l'inconscio, il più consolidato buon senso o senso comune, cioè quella parte di buon senso più connotato in senso superegoico e collettivamente meglio distribuito. "Il buon senso è la cosa meglio ripartita, perché ognuno pensa di esserne talmente ben provvisto che gli stessi difficilmente contentabili in ogni altra cosa non hanno l'abitudine di desiderarne più di quanto già non ne possiedano". La raffinata ironia dell'incipit del Discorso sul metodo lo dice tra le righe: il buon senso è universale perché è aristotelico. La filosofia cartesiana va contro Aristotele, ma Cartesio deve procedere con prudenza - larvatus prodeo - perché gli aristotelici - accademici e teologi - sono pronti a fargli la pelle.

Tuttavia, l'ironia - come si vede dalla reazione selvaggia al cartesianesimo - non basta a decostruire la metafisica aristotelica. Neppure Galilei - che pure, da toscanaccio qual era, era meglio attrezzato di Cartesio - ci riuscì. Il suo Simplicio dei Dialoghi o dei Discorsi è la spassosa satira dell'aristotelismo scolastico. Ma la presa in giro non fa centro. Non fa cadere uno iota della sacra enciclopedia aristotelica. La volontà di ignoranza è più forte della nuova scienza. Ancora oggi.

Forse Freud, nonostante non fosse meno aristotelico di tutti noi (8), trovò il metodo giusto per dimenticare Aristotele. Sono le libere associazioni, dalla parte del paziente in analisi, e l'attenzione ugualmente fluttuante dalla parte dell'analista, che inaugurano il vero lavoro scientifico della psicanalisi. Libere da quale vincolo? Fluttuante rispetto a quale linea di riferimento? L'ideazione psicanalitica è libera e fluttuante rispetto al principio di causa ed effetto. A suo modo Freud integrò Hume, anche se poi si pentì ed, essendo medico, tornò all'aristotelismo e piegò le libere associazioni alla ricerca della causa traumatica delle nevrosi. (Qui Grünbaum coglie nel segno). Ma a noi basta il principio freudiano e proviamo ad applicare l'attenzione fluttuante al bla-bla aristotelico.

Ecco alcune primizie.

Tutta la Metafisica aristotelica, per non parlare della Fisica, celebra il principio di ragion sufficiente, di cui tuttavia non dà giustificazione sufficiente (9). La relazione di causa ed effetto non rientra nelle dieci categorie, che predicano i modi in cui l'essere può essere detto: sostanza, quantità, qualità, relazione, dove, quando, trovarsi (guarda chi si ritrova? il Dasein!), avere, fare, subire (cfr. Topici, Categorie). Tanto basta a dimostrare la disonestà intellettuale dell'autore, che non dichiara le carte con cui gioca, cioè le categorie del proprio discorso. E si capisce, perché la relazione di causa ed effetto, soprattutto attraverso la causa finale, incorpora la volontà del padrone, di cui il filosofo è il servo privilegiato. Questa "relazione" servo/padrone deve rimanere nascosta.

Ma ascoltando più distrattamente il discorso di Aristotele cosa si percepisce?

Si percepisce che Aristotele si affaccenda con un'ansia non solo filosofica intorno al problema della generazione. Come una cosa genera un'altra? Da dove vengono i bambini? Più precisamente, come nasco io? Come la madre genera il figlio? Partorendolo? Non basta. Questa sarebbe solo la generazione materiale, buona anche per gli animali. E la generazione spirituale? Il padre c'entra in qualche modo? Si può dire che il padre generi? Se sì, in che modo?

La risposta è: "il padre genera il figlio grazie alla relazione di causa ed effetto".

Il padre causa il figlio.

Sta qui la ragione psicanalitica per cui il principio di ragion sufficiente è così difficile da sradicare dal buon senso: perché è a tutti gli effetti un principio di paternità. Risponde all'universale domanda infantile: da dove vengono i bambini? Rinunciare a questo principio sembra pericoloso al figlio. Ne va del suo essere. Se non ci fosse il padre come causa del figlio, il figlio non esisterebbe come effetto, quindi non esisterebbe tout court. Per il povero essere parlante, che non troverebbe più il gancio originario a cui ancorare la propria precaria ontologia, si spalancherebbe il pozzo senza fondo della follia. Effettivamente, da questa profonda radice aristotelica, nasce la teoria lacaniana della genesi della follia a partire dalla fuorclusione del Nome del Padre. Una teoria falsa, che contiene del vero. La verità è che la filosofia aristotelica era predestinata a entrare al servizio del vero padrone: l'unico e vero dio, il dio della religione cattolica, apostolica e romana (10).

Allora, lunga vita alla causa!

Per la causa della causa il figlio si sacrifica allo scopo (ancora la causa finale!) di salvare il padre. Il padre vive, se il figlio muore. E se il padre vive, il figlio può risorgere. Freud e Gesù Cristo lavorano allo stesso progetto: salvare il padre, per salvare il figlio. Solo che Freud è stato più eziologico di Gesù e ha rappresentato le cose in modo invertito, per spiegare la causa della nevrosi: il figlio desidera uccidere il padre. Ma Gesù, pur non indifferente all'eziologia ("Dai frutti conoscerete l'albero"), è stato spesso più spiritoso di Freud - più ebreo. Poi l'hanno divinizzato e l'umorismo è sfumato in cielo. Ma, in fin dei conti, Gesù intuiva meglio di Freud la verità biologica, cioè che è il padre a desiderare la morte del figlio. Infatti, il maschio, che si impossessa della femmina, vuole annullare i figli, che questa ha avuto da altri maschi, per favorire il proprio seme (sempre la causa finale!). Nel mito cristiano questa realtà biologica è adombrata dalla nascita del figlio di dio da una vergine. Dio, in quanto vero e unico padre, deve essere anche il primo e unico maschio conosciuto dalla donna. (Da qui la coerenza della richiesta del celibato per i preti cattolici).

Tutto ciò premesso, qualcuno potrebbe chiedersi perché darsi tanta pena per dimenticare un ferrovecchio come la metafisica aristotelica. C'è una ragione molto attuale che riguarda la salvaguardia della scienza. Il discorso corrente, un misto di buon senso e di adeguamento al volere del potere dominante, usa l'aristotelico scire per causas per degradare la scienza a tecnologia. La tecne, che in greco significa anche arte, è il discorso dove predomina la causa, in particolare la causa finale. Il saperci fare tecnico mira a realizzare uno scopo, a vantaggio del padrone che può brevettare la tecnica, lucrando i diritti. Ma c'è un extravantaggio nell'operazione. E' difficilmente monetizzabile, ma non meno importante. Attraverso la tecnologia si reintroduce la causa finale nel discorso scientifico, che originariamente la esclude. La scienza non fuorclude la verità e il soggetto, come sostengono i lacaniani ortodossi, ma fuorclude la causa finale. Poiché la scienza non è finalistica, l'equazione scienza = tecnologia - la tecnoscienza dei fenomenologi - reintroduce la causa finale nellla scienza e la snatura o, almeno, la riporta sui binari della scienza pregalileiana finalistica, dove viaggia la locomotiva del potere. Semplice, no? Gli analisti parlerebbero di scienza non avvenuta grazie alla tecnologia. Un ultima considerazione: il meccanismo di difesa del rendere non avvenuto è molto gettonato dal pensiero ossessivo, tendenzialmente servile.

*

Concludo con una considerazione evangelica.

“Se non diventerete come bambini…” Mt. 18,3.

Perché i bambini chiedono “perché”?

I bambini non sono ancora deformati dal buon senso aristotelico. Quando chiedono "perché?" non vogliono sapere le cause delle cose. Vogliono sapere altro, tanto è vero che continuano a chiedere “perché” anche dopo che l’adulto ha spiegato loro la causa. I bambini vogliono sapere una cosa sola, che li riguarda personalmente e, cioè, se sta in piedi la loro supposizione che l’altro sappia. In generale si tratta di una falsa supposizione. Aristotele (Metafisica, Libro Primo, cap. 1) ed Epicuro la chiamavano ipolessi, intendendo con questo termine la presunzione in attesa di conferma empirica. Nel mio linguaggio ipolessi si dice "congettura". Allora, se l'ipolessi infantile regge, cioè se l’adulto supera il test del bambino, dimostrando di saper argomentare in modo convincente, il bambino assume come propria quella porzione di sapere dell’altro. Altrimenti chiede un altro “perché”, fino a esaurimento della pazienza dell'adulto. Così si trasmettono da una generazione all’altra i pregiudizi che formano il legame sociale. Il normale legame sociale epistemico è, infatti, composto da false supposizioni, che, una volta confermate, magari per caso, non saranno mai più confutate dalla successiva esperienza contraria, come i deliri. Anzi, saranno coronate da un’identificazione alienante al tratto dominante e determinante (11) dell’altro. Tale identificazione sarà tanto più forte – in via compensatoria – quanto più il sapere dell’altro si sarà dimostrato inconsistente alla prova dei “perché”. Perché? Dal riscontro dell'ignoranza dell'altro alla soggezione di stampo fascista al potente di turno il passo purtroppo è breve. Infatti, il soggetto trova nell'ignoranza dell'altro la corroborazione della propria e sarà per sempre grato all'altro, perché lo conferma - lo "cresima" - nel proprio non voler sapere.

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Note

(1) Il famoso incipit del Discorso sul metodo sul buon senso, di cui nessuno lamenterebbe la mancanza, va interpretato in senso ironico. Cartesio sa di stare proponendo una filosofia non aristotelica, quindi molto lontana dal "semplice" buon senso. Ma si mette la maschera del buon senso per contrabbandarla. Quasi prevedesse il successivo malvezzo fenomenologico che confonde esperienza con buon senso - come se fare esperienza fosse la cosa più facile di questo mondo e alla portata di tutti - e sapienza con vera scienza. L'ultima astuzia della volontà di ignoranza è mettere in giro la diceria che acquisire il sapere è facile e non richiede un particolare allenamento mentale. (Torna su)

(2) Il più importante degli esperimenti mentali galileiani stabilisce addirittura il principio di inerzia, ossia l’esistenza di moti senza causa. Se una biglia lanciata verso l’alto decelera e lasciata cadere verso il basso accelera, lasciata in piano né accelera né decelera, cioè conserva per sempre la propria velocità iniziale, qualunque essa sia. Ho sviluppato l’argomento in “Preparare la scienza correggendo la posizione dell’etica” ovvero della causa, dell’uno e del tempo al tempo del soggetto della scienza). (Torna su)

(3) Hume fu presto riassorbito dal pensiero ontologico dominante, dall’hegeliano in primis, che elevava la Causa alla dignità della “Cosa originaria” (Ur-Sache). Tuttavia, il lavoro di Hume lasciò indelebili tracce scientifiche, per esempio nel saggio sulla "dottrina del caso" di Thomas Bayes (1763) e nella formula di Laplace, esposta nel suo saggio Sulla probabilità delle cause in base agli avvenimenti del 1774 e ripresa nel Saggio filosofico sulle probabilità del 1814. La formula è semplice e vale la pena di riportarla. Se l’evento in questione si è verificato k volte in n prove, la probabilità che si verifichi per la (k+1)-esima volta nell’(n+1)-esima prova è (k+1)/(n+2). Per k = n, si ottiene (n+1)/(n+2), cioè la probabilità che la supposta causa produca l’effetto all’(n+1) prova, sapendo che l’ha prodotto in tutte le prove precedenti. Chiaramente, tale probabilità è inferiore a 1. Scientificamente parlando, non c'è certezza che la causa produca l’effetto. Il determinismo non esiste nella scienza. Abita solo nell'analfabetismo scientifico della fenomenologia. (Torna su)

(4) L’analisi lacaniana attribuisce a ciascun discorso la propria giusta causa. La causa efficiente alla magia, la causa finale all’escatologia, la causa formale (o dell'essenza!) alla scienza, la causa materiale alla psicanalisi. Naturalmente il soggetto di questo discorso è il significante. È lui – il significante – la causa di tutto, come c’era da aspettarsi in un discorso logocentrico. (Torna su)

(5) Freud va giustificato, perché non fu mai veramente uno scienziato nel senso moderno del termine. Rimase sempre profondamente medico, nonostante parlasse di psicanalisi laica o non medica. Vedi la nostra parafrasi della freudiana Eziologia dell’isteria. L’eziologismo ippocratico accecò Freud al punto tale che non riconobbe come relazione di desiderio la relazione del soggetto con l’oggettovoce”. Mi tocca riconoscere che Jung non cadde nella fallacia eziologica. Forse grazie ai rapporti con Wolfgang Pauli i suoi saggi sulla sincronicità sono assai vicini alle considerazioni di non località qui svolte. (Torna su)

(6) Velocità e posizione o energia e tempo sono operatori quantistici non commutativi. Se conosci prima la velocità, non conosci dopo la posizione. Viceversa se conosci la posizione non conosci la velocità. Viene così a mancare in meccanica quantistica la relazione post hoc, propter hoc necessaria alla causalità. La velocità non sposta la posizione di una particella. la velocità di una particella non esiste in nessun luogo. Pertanto, essendo indeterministica, la meccanica quantistica è essenzialmente incompleta. Nota la velocità, le possibili posizioni di una particella occupano tutto lo spazio; nota la posizione, le velocità della particella possono essere infinite. Non ha perciò senso parlare della singola particella. Insieme al principio di ragion sufficiente decade anche la nozione di singolarità. Perciò si preferisce parlare di campi, invece che di particelle. (Torna su)

(7) Un’osservazione a questo punto si impone. L’incompletezza non riguarda solo le teorie scientifiche, ma coinvolge anche la dimensione narrativa. Oggi, nell’ambito del movimento psicanalitico, si assiste a una moda che, pur di resistere alla scienza, va affermando che la psicanalisi mira a ricostituire l’integrità della storia singolare del soggetto - la famosa "singolarità" del caso clinico - in contrapposizione alle generalizzazioni scientifiche. Si finge di ignorare che la delocalizzazione e la conseguente decadenza del principio eziologico comportano l’incompletezza anche delle novelle cliniche, scritte come romanzetti d’appendice alle ortodossie di scuola. Alla singolarità narrativa tocca la stessa sorte dell’universale scientifico. Entrambi vengono decompletati. (Torna su)

(8) Sotto forma di principio eziologico, l'aristotelismo domina tutta la metapsicologia freudiana. Le pulsioni sono la causa freudiana. Le pulsioni sessuali sono la causa efficiente, che mette in moto il processo dell'improbabile soddisfazione. La pulsione di morte è la causa finale, a cui tende tutto l'apparato psichico: l'abolizione delle tensioni di desiderio. (Torna su)

(9) Non concordo con Giovanni Reale che giudica la Metafisica aristotelica un'opera priva di unità letteraria (Cfr. Aristotele, Metafisica, Bompiani, Milano 2000, p.V). L'unità esiste ed è rappresentata dal principio eziologico o di ragion sufficiente. Lo storico cattolico tende maliziosamente a occultare le fonti della propria ideologia. Il principio di ragion sufficiente, su cui si basa la prova dell'esistenza di dio, opera più efficacemente se è rimosso. (Torna su)

(10) Prima degli scolastici ci hanno provato i filosofi arabi a impossessarsi di Aristotele. Ma la struttura della loro teologia era troppo povera per ospitare tutta la ricchezza di articolazioni del pensiero aristotelico. (Torna su)

(11) "Determinante" va inteso nel senso forte di ciò che instaura il rigido determinismo eziologico. (Torna su)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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